Con questo intento riportiamo il testo della breve meditazione di Mons. Delpini alla preghiera interreligiosa del Campus e le riflessioni di don Giovanni a seguito di questa straordinaria esperienza perché diventi ricchezza per tutti.
Le
consegne di Mons. Delpini
al Campus della Pace
al Campus della Pace
L’umanità è ferita. Questa cosa meravigliosa che
è l’uomo, la donna, l’umanità è ferita nelle sue manifestazioni più belle, più
alte, più necessarie.
L’umanità è ferita nel suo bisogno, la fame, la
sete, il bisogno delle cose può
diventare avidità. L’avidità è la ferita del bisogno perché l’avidità induce le
persone a prendere ad accaparrare, ad accumulare, a ritenere che quello che
l’altro prende è sottratto a me, perciò l’altro diventa un nemico. L’avidità è
una ferita che induce quindi alla guerra, al contrastare chi vuole prendere
quello di cui io ho bisogno. L’avidità è la ferita che fa soffrire l’umanità.
E’ Gesù in questa pagina di vangelo (la
moltiplicazione dei pani) dice che il bisogno invece che generare avidità deve
generare condivisione. Ci insegna dunque che è necessario curare questa ferita.
E io vorrei incoraggiare tutti a creare
laboratori dove si cura la ferita, dove si considera il bisogno e si vigila
perché il bisogno non generi avidità ma invece condivisione.
Io incoraggio, invito, chiedo che il Campus per
esempio che qui si organizza sia un laboratorio per curare la ferita che può
generare avidità.
Io prego, io chiedo, io invito che le religioni
siano dei laboratori dove si cura questa ferita.
Io prego, io chiedo, io invito che questa città,
che questo quartiere sia un laboratorio che cura questa ferita.
Si cerca di curare questa ferita della dignità
facendo si che il bisogno convinca alla condivisione.
L’umanità è ferita nelle sue caratteristiche più
nobili per-ciò è ferita la parola. La parola può essere una parola che
respinge, una parola che separa, una parola che semina confusione, una parola
che crea banalità, una parola che accusa, che ferisce, che offende.
La parola è ferita.
Io invito a cercare la cura per la parola
ferita. E la cura per la parola ferita è
il silenzio, imparare a fare silenzio.
Le diverse religioni quando parlano sembrano
dire cose contrastanti, chiamare Dio con nomi diversi. Quando fanno silenzio
pregano l’unico Dio. Il silenzio guarisce la parola ferita e fa nascere parole
di pace.
Io invito, chiedo, suggerisco che ci siano
laboratori dove si pratica il silenzio per curare la parola ferita e farla
diventare parola buona. Così il Campus, la città, le religioni e tutte le
nostre associazioni di bene possono curare la parola ferita praticando questo
percorso affascinante che è il silenzio di cui abbiamo bisogno perché Dio si
riveli e semini parola buone, parole di pace.
L’umanità
è ferita in quello che ha di più nobile, di più alto. L’umanità è ferita nelle
relazioni. Le relazioni si ammalano di paura, di sospetto, di pregiudizio, di
contrasti. Le persone si incontrano e le relazioni malate generano conflitti,
contrapposizioni.
Bisogna creare dei laboratori in cui si curino
le malattie della relazione interpersonale. E io perciò invito tutti, noi qui
stasera, tutte le religioni, tutte le associazioni, tutta la città a diventare
un laboratorio in cui si curi la ferita delle relazioni e la cura è la mitezza
e il perdono.
Così potremo costruire relazioni che invece che
essere segnate dalla paura, dal pregiudizio, dal sospetto, che siano
caratterizzate dall'attenzione, dal rispetto, dalla stima vicendevole.
Il Signore Gesù ci ha comandato di amarci come
lui ci ama per curare le relazioni ferite.
Perciò facendomi voce della Chiesa cattolica e
cercando l’alleanza con tutte le religioni, con tutte le presenze e le
istituzioni della città, io invito a fare di questa città, di questo quartiere
e di questa iniziativa del Campus un laboratorio: per curare l’avidità, perché
ne venga condivisione;
per curare la parola che ferisce, perché ne
venga quel silenzio da cui viene la parola che guarisce;
per curare le relazioni malate con quell'esercizio della carità che genera relazioni di pace.
A così poca distanza dai giorni del Campus della Pace non è facile tracciare un bilancio.
Mi limito quindi ad alcune non esaustive considerazioni sparse e senza pretesa di organicità, quasi come un flusso emotivo che desidero condividere con chi avrà la pazienza di leggere queste righe.
1 Esperienza straordinaria e bisogno di ordinarietà.
Condivido una domanda che mi ha fatto compagnia nei giorni intensi di
preparazione all'evento, densi di mail, telefonate, incontri e pianificazione
nei dettagli che allora poteva apparire come dettata dalla stanchezza e dalla
pressione e che invece consideravo e tuttora reputo bisognosa di un vero e
proprio discernimento spirituale: a Gratosoglio c'è ancora bisogno di un evento
straordinario oppure tutti gli ingredienti concentrati nell'arco di una
settimana possono diventare prassi ordinaria dei nostri gruppi di pastorale
giovanile? Insomma, c'è ancora bisogno del Campus della Pace? Testimonianze eccellenti,
momenti di preghiera con le altre religioni, lavoro condiviso con le scuole,
accoglienza di fratelli di città lontane, collaborazione con la comunità
islamica, riflessione e azione di taglio sociale e politico per sognare e agire
una riqualificazione della nostra periferia non senza il coinvolgimento del
centro...tutto questo deve essere inserito nel calendario dell'anno e senza
eccessivo clamore; deve essere il nostro ordinario modo di procedere per non
confinarci nello spazio angusto dei nostri recinti, per non incontrare solo
quelli che appartengono ai nostri percorsi ma un'occasione grande di semina in
tanti cuori, un modo di essere sale e luce della terra, di non smarrire il
senso del Vangelo nella città dell'uomo.
Colgo come alta questa ambizione eppure non irraggiungibile e se avremo
ancora bisogno dell'Evento, vorrei che tutti insieme lo avvertissimo come
assolutamente transitorio, come una tappa obbligata per rendere straordinari
tutti i nostri percorsi ordinari.
2 Non senza l'apporto della comunità.
Mi fa sperare nella realizzazione di quanto scrivevo poco sopra il
fatto che mai come quest'anno siano stati tanti gli attori che volontariamente
si sono messi in gioco per realizzare questa avventura: giovani e meno giovani,
famiglie intere in una molteplicità di servizi che hanno reso curata e precisa
ogni iniziativa. Il mio grazie va a tutti voi per la serietà con cui avete
raccolto la sfida e vi siete impegnati con orgoglio a mostrare la profezia
nascosta nella nostra periferia.
Spesso, per presentare il tema, ho richiamato il fatto che a
Gratosoglio c'è un'oasi di futuro che va riscoperta, come una ricchezza che ci
appartiene e che, liberata, può arricchire il tessuto civile della nostra
città: è l'umanità che caratterizza le nostre parrocchie e che, in linea con la
nostra tradizione, ci permette di annunciare il Vangelo in questo scorcio di
millennio; è la voglia di non chiudersi in casa e di abbattere i muri del
pregiudizio. Non è sempre facile abitare questa periferia: in quei giorni forse
abbiamo ritrovato la possibilità di essere un'oasi accogliente per molti e non
è poco nel deserto in cui spesso abbiamo la percezione di camminare. E dall'essere per l'altro può rinascere una
nuova consapevolezza di noi stessi e possiamo rintracciare una vocazione più
profonda dell'essere Chiesa fra le case.
3 "Ma a te cosa ha colpito di quei giorni?"
Non sono pochi quelli che mi hanno rivolto questa domanda. Potrei
rispondere che mi ha colpito tutto, che mi hanno stimolato gli interventi di
alcuni ospiti, mi ha emozionato vedere riuniti con il Sindaco e l'Arcivescovo gli esponenti delle altre
comunità religiose, i numeri insperati, il silenzio attento dei giovani,
l'entusiasmo crescente delle scuole… ma
io preferisco i dettagli.
Ciò che mi ha colpito sono le parole di un ragazzo del Liceo Berchet
che per la prima volta metteva piede in in quartiere e che ha detto che
"da qui si vede il cielo!", semplice considerazione che valorizza gli
spazi aperti e il verde del nostro Parco Agricolo Sud ma in cui ho voluto
cogliere un'allusione poetica! Mi ha colpito l'improbabile gioco di squadra
delle mamme islamiche con le nostre mamme e il loro sorriso mentre erano sedute
a tavola con l'Arcivescovo senza dovere per una sera sfaccendare nelle loro case;
gli incroci delle vite dei testimoni di martedì sera e la mia gioia di poter
presentare, prima dell'incontro, grandi uomini ad altrettanti grandi uomini; mi
ha colpito il silenzio attento di oltre 400 ragazzi delle medie mentre
ascoltavano le parole impregnate di vita di un uomo controcorrente come Jovan
Divjak; mi ha colpito la commozione degli adolescenti mentre si lasciavano
ripetere dai clochard venuti come testimoni giovedì mattina che in nessun
momento un uomo perde la sua dignità.
don
Giovanni