LETTERA A TUTTI I FEDELI DELLA CHIESA AMBROSIANA
Anno pastorale 2010-2011 (4a puntata)
Carlo Borromeo e la sorgente della carità
San Carlo, sull’esempio di Gesù, fu il Buon Samaritano sulla strada della storia, che si dedicò interamente alla Chiesa di Milano, ritrovando nel mistero del Crocifisso risorto la forza della fede e il coraggio di una straordinaria opera di riforma pastorale. La storia ci insegna che ogni discernimento sul senso della vita e ogni rinnovamento nella Chiesa partono sempre da una grande esperienza spirituale.
Il Borromeo è diventato santo nell’esercizio del suo ministero episcopale. E, seguendo il suo esempio, tutto il presbiterio e tutti i fedeli sono stati attratti a diventare santi proprio nel servizio all’edificazione della Chiesa.
Certo della sua presenza e della sua benevolenza, anche io oggi invoco la grazia di essere introdotto nello spirito che lo ha animato, nella sua preghiera che sta all’origine dei suoi pensieri, dei suoi progetti e delle sue decisioni. Prego perché sia dato a me, a tutti i fedeli di questa nostra Chiesa diocesana, di vivere questo anno pastorale come un tempo per camminare, certi dell’intercessione di san Carlo, verso una vita più santa, verso una Chiesa più giovane e coraggiosa, più povera e libera, più dedita alla missione che il Signore le affida per questo tempo.
Diventerò più santo? Diventeremo più santi? Le domande possono suonare retoriche. Ma in realtà significano: la mia vita, la nostra vita di Chiesa, diventerà segno più comprensibile dell’amore di Dio per tutti gli uomini e le donne che vivono su questa terra? La mia vita, la nostra vita, rivelerà in modo più trasparente e persuasivo che, se siamo dimora della Spirito di santità, saremo riconciliati tra noi e pieni di fiducia?
San Carlo ci parla ancora con quella insistenza analitica e prescrittiva, ispirata a una passione pastorale che lo impegnava fino a tormentarlo; ancora ci incoraggia con quella sua austerità esagerata, motivata da una tensione alla santità sempre insoddisfatta; ancora ci ispira con quella lungimiranza organizzativa suscitata da un acuto senso di responsabilità e da una vibrante passione di riformatore, che sono il suo canto d’amore per la santa Chiesa di Dio.
Due sono i criteri dell’azione pastorale di san Carlo: il riferimento al Vangelo e il grido dei poveri.
La bussola della sua azione pastorale non è il calcolo dei risultati conseguiti, non è il compiacimento e il plauso degli uomini, ma la verifica della coerenza con l’ispirazione evangelica del suo operato e la ferma applicazione delle indicazioni ecclesiali, specie quelle formulate dal Concilio di Trento. La sua operosità instancabile e la determinazione dei suoi interventi rivelano un’ incrollabile fiducia nella possibilità di incidere nella vita della Chiesa. Ma sempre più si riconosce anche, nell’evoluzione della sua storia di santità, che l’anima di tutto è la conformazione al Signore e ai suoi sentimenti.
Inoltre, Carlo Borromeo ascolta il grido dei poveri, sente compassione per la sua gente e se ne prende cura con una dedizione senza risparmio: non ha mai sentito quella sorta di alternativa, di cui noi spesso ci lamentiamo, tra la cura pastorale e la burocrazia ecclesiastica, perché ha vissuto ogni impegno come un servizio d’amore offerto per una Chiesa più santa.
Dalla presidenza dei concili provinciali e dei sinodi alla visita pastorale, dalla normativa per i seminari e per i chierici alla cura per l’arte sacra, dalla predicazione alla creazione di istituzioni ecclesiastiche laicali, dalle relazioni con le autorità civili alle relazioni con gli ordini religiosi, tutto ha saputo unificare e vivificare per un unico scopo, per una forma di amorevole premura, seria, esigente, disinteressata: si potrebbe dire che la sua è una vita che interamente diventa culto spirituale.
Ma quando il grido dei poveri è troppo straziante, quando il gemito dei malati di peste si alza da ogni casa di una città sconvolta e desolata, quando la fuga dei furbi e dei privilegiati è troppo insopportabile, allora la compassione spinge a una prossimità fino all’imprudenza, a uno sperpero di sé che ignora la misura, ma che esprime la forma eroica della carità.
Che cosa può fare il vescovo nella città ferita dall’ignoranza, dalla povertà e dalla peste? Che cosa può fare il vescovo quando sembra che il mondo sia così sconvolto dall’ingiustizia e dalla superficialità, da rendere inefficace ogni rimedio? Che cosa può fare il vescovo quando sembra che della povera gente non interessi niente a nessuno? Il vescovo non può dare che Gesù! (cfr Atti 3,6).
Il vescovo continua a professare la sua fede con un atto di presenza, con un’amorevole sollecitudine. Sa di non poter salvare nessuno, ma professa la sua fede: in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati (Atti 4,12). Per questo san Carlo porta ai malati l’Eucaristia, per questo percorre la città con la croce. Forse la gente non ricordava nulla delle sue prediche, non aveva simpatia per le sue prescrizioni, non riusciva ad apprezzare le istituzioni da lui create, ma aveva capito di aver incontrato un santo: l’indiscutibile pratica della carità fino al sacrificio di sé portava i segni inequivocabili di quell’unico amore fino alla fine in cui tutti trovano salvezza. San Carlo, nella storia della Chiesa di Milano, mette in luce la necessità di riscoprire il mistero della Chiesa, prima ancora delle sue istituzioni: come la vivacità dello Spirito accompagna oggi le nuove generazioni? Come eventi e istituzioni sono al servizio di una rinnovata presenza della misericordia e della fedeltà di Dio nella storia?
La cura pastorale e la città ferita
San Carlo ha portato dedizione, amore e speranza non solo nella comunità cristiana ma in tutta la città di Milano, in modo particolare quando fu colpita dalla peste. Si è rivolto a tutti e ha saputo andare anche fuori le mura. Questo saper allargare gli orizzonti, questo prestarsi ad andare fuori le mura nelle mille relazioni quotidiane è una sfida per i cristiani di oggi e per la cura pastorale delle nostre comunità.
Una delle esperienze più belle che vivo come arcivescovo di Milano è proprio la possibilità di incontrare da vicino le persone: tanti volti, tante mani, tante vicende raccontate all’arcivescovo, nella ricerca di rapporti personali che troppo spesso non ci sono più. Quante cose ho imparato ascoltando in questi anni la gente delle nostre parrocchie e delle nostre città! Le persone chiedono ascolto per le proprie sofferenze, vogliono comprensione per le proprie difficoltà, amano gli uomini e le donne di Dio per affidare a loro segreti e speranze, chiedono buon esempio e preghiere di intercessione.
Alla scuola di san Carlo, dobbiamo imparare ancora di più a mostrare la consolazione che deriva dalla fede, l’amore per Gesù e il gusto per la preghiera. Allora, e solo allora, sapremo raccogliere il grido dei poveri, di tutti i poveri, di ogni nazione, lingua, razza e religione. Il Vangelo ci invita a stare dalla parte di coloro che hanno fame e sete di giustizia, di coloro che lavorano per una città più accogliente e più fraterna, di coloro che sperano in una solidarietà che sia profezia di un mondo in cui amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno; verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo (Salmo 85,11-12).
La carità pastorale non deve esaurirsi solo nel programmare le nostre iniziative, ma dovrà esprimere sempre di più la capacità di raccogliere e interpretare il senso profondo della crisi esistenziale contemporanea, che passa nel vissuto dei singoli e in tutta la società. Ci sono domande di senso che vanno ritrovate. Ci sono vuoti interiori che vanno riempiti.
Innanzitutto c’è un grande bisogno di Dio: se siamo credenti e praticanti, non dobbiamo mai dare per scontate la ricerca di Dio, la conoscenza del suo mistero, la grandezza dell’Incarnazione e della Passione di Cristo, la forza della sua Risurrezione. Dobbiamo riscoprire il dono della fede e la bellezza della grazia che il Vangelo offre alla nostra intelligenza e al nostro cuore. Dobbiamo riconoscere il rapporto vivo con il Signore, che è conoscenza e amore, perché è la fede che si rende operosa per mezzo della carità (Galati 5,6). La carità, che san Carlo ha saputo esprimere, proveniva direttamente dalla sua fede e dal suo rapporto intenso di amicizia con Gesù. Era frutto della sua preghiera, era partecipazione all’amore di Cristo per la storia degli uomini. Era compassione (Luca 10,37): una compassione che lo scuoteva fino alle lacrime.
Anche se viviamo in mezzo alla superficialità, alla stanchezza e talvolta alla delusione, io sento che è vivo e cresce il bisogno di Gesù e del suo Vangelo. Incontro molte persone che, anche se sono lontane dalla Chiesa, vivono a volte con sofferenza la loro ricerca di Dio. Vorrei dire che comprendo e che rispetto questa ricerca; vorrei dire loro che amo questo anelito alla verità; vorrei manifestare loro la mia stima e porre con loro la domanda sulla divinità di Gesù e sulla grandezza del cristianesimo, non solo per la Chiesa, ma per il mondo.
Viviamo, infatti, un tempo in cui si stanno affacciando all’orizzonte grandi domande sul senso della vita, sulla verità dell’amore e sulla possibilità di relazioni profonde e definitive tra le persone. Ci si interroga sulla qualità del vivere sociale, sul costo umano del lavoro, sul valore del benessere a tutti i costi, sul bisogno di nuove solidarietà.
Con le sue scelte di vita personale san Carlo ha messo in crisi i costumi dominanti della Chiesa del suo tempo indicando una via straordinariamente feconda.
Fermandoci, su questa nuova strada che da Gerusalemme conduce a Gerico, dobbiamo interrogarci di fronte alle esasperate divisioni che ci sono tra noi, all’arroganza e all’aggressività di molti atteggiamenti privati e pubblici contemporanei, per riscoprire il valore profetico e civile delle Beatitudini evangeliche, quali la povertà, la misericordia, la purezza di cuore, la promozione della pace e la mitezza che erediterà la terra (cfr Matteo 5,3-12).
Anche in mezzo ai giovani ci sono ferite che vanno curate. Per loro la Chiesa è insieme un dono e un problema: i giovani hanno molte domande, molte distanze, molte attese. Sono esuberanti, ma spesso sono tristi perché non vedono il futuro. Affinché possano trovare una solida identità e uno spazio nella vita ecclesiale, sociale, culturale e politica è anche necessario che gli adulti facciano dei sacrifici e siano disponibili a rinunciare a qualche egoistica affermazione.
(continua)