L'inizio
del brano ci immette con immediatezza drammatica alle domande di questi giorni:
“Chi ha peccato? Di chi è la colpa?”. La domanda i discepoli se la fanno di
fronte ad uno sconosciuto fermo al bordo della strada, ma per noi la domanda è
più drammatica, perché ce la facciamo a riguardo di persone vicine, di amici,
di fratelli colpiti dal male. “Di chi è la colpa?” Chissà perché questa domanda
sembra quasi inevitabile. Non è la domanda giusta, di per sé, e infatti Gesù la
scarta, invita i discepoli a guardare altrove. Però è una domanda che si
impone, sembra quasi inevitabile: “Di chi è la colpa?” Perché questa domanda
insorge dentro di noi? Io credo che sia per il fatto che noi non sappiamo
sostenere il male, reggere impotenti il dolore, le situazioni di malattia.
Tutto questo ci fa così male che non le reggiamo e dobbiamo in qualche modo e
scaricarle. Per questo cerchiamo un colpevole; “se c'è un colpevole io non
centro, io sono in salvo, non mi tocca!” Ecco che si cerca (e si trova) ogni
volta il colpevole di turno: l'untore, piuttosto che il complotto
internazionale, la stupidità della popolazione che non si è difesa. Il
colpevole mette ciascuno al riparo – o almeno crediamo – senza che ci si debba
assumere alcuna responsabilità. E invece non è così, non è così! Noi siamo
tutti responsabili per tutto e di tutti! La ricerca del colpevole – “chi ha
peccato?” – è una “domanda cieca”, non porta da nessuna parte, ma soprattutto è
un modo di non lasciarsi toccare dalle situazioni. Invece l'unico modo di
affrontare il male che ci attornia, di attraversare il buio, le situazioni
oscure, è di entrare dentro di esse, di lasciarsi toccare da esse, dovessero
anche ferirci.
Le opere della luce.
E infatti Gesù risponde alla domanda dei
discepoli spostando altrove la ricerca. Dobbiamo cercare non la colpa sua o dei
suoi genitori, ma dobbiamo compiere le opere della luce! Anche nei momenti più
oscuri c'è ancora un po' di luce, c’è del bene che possiamo fare e che accade
sotto i nostri occhi, se lo sappiamo vedere. Dobbiamo restare tenacemente
attaccati a tutta la luce che c’è, finché è giorno! Tenere accesa la luce che
c’è, orientarci con essa senza lasciarci accecare dall’oscurità. Perché le
tenebre sono accecanti e insieme seducenti. Noi subiamo spesso una sorta di
fascinazione per l’oscurità, vediamo subito le cose brutte, le cose negative,
gli errori, il male, i colpevoli. Lo vediamo subito, e non vediamo il bene.
Gesù sposta il nostro sguardo verso le opere della luce, la possibilità di bene
che è ancora possibile.
Il tocco della grazia e la promessa che mettono
in cammino.
Che cosa fa allora Gesù? La sua opera avviene attraverso un gesto e una parola. Per prima cosa Gesù tocca il cieco. Compie gesti che sono evidentemente simbolici: prende della
Duccio da Boninsegna – 1308 |
La
seconda azione che Gesù compie è il dono di una parola che è una promessa e un
ordine: “va' a lavarti”. Inizia qui il cammino di una creatura nuova, di un
uomo nuovo. Il cieco inizia una vita nuova perché impara a camminare fidandosi
della parola, della promessa di Gesù. Questo dice molto dell’esperienza della
fede. Credere è essere toccati da una grazia, ricevere un tocco di grazia, e mettersi
in cammino. Basta poco, un tocco appena di grazia che ti fa vivere. Nel momento
in cui la ricevi non vedi il Signore, non lo sai neppure di essere stato
ricreato, ma lo senti, lo intuisci perché di nuovo impari a fidarti. La
promessa indica una rigenerazione, un futuro possibile: “va’, cammina, lavati e
purificati, rinasci e alzati, e vedrai in modo nuovo”. Così è nell’esperienza
della fede di tutti: quando il Signore c’è e ci tocca, passa a fianco della
nostra vita, noi non lo vediamo. Percepiamo in maniera intuitiva una presenza
di vita, ma non lo vediamo; solo dopo aver imparato a camminare e sorretti
dalla sua promessa, giungiamo a riconoscerlo. Ma prima c’è un lungo e arduo
percorso durante il quale, fidandosi di questa parola, impariamo a reggere il
tempo della sua assenza. Perché in tutto il brano Gesù è un grande assente: si
presenta all’inizio e alla fine, ma nel corso drammatico di tutta la parte
centrale del cammino, quando il cieco deve reggere la prova, quest'uomo è da
solo, e Gesù è assente. Eppure, quell’assenza non è priva di forza, è
un'assenza che ha lasciato una traccia, la sua parola, l'esperienza di
quell’incontro che lui non può dimenticare e che lo tiene vivo; fa si che possa
reggere anche le provocazioni, le interrogazioni di tutti quelli che lo mettono
in dubbio; lui non lo ha visto, eppure qualcosa è accaduto di straordinario!
Credere significa anche questo: imparare a camminare reggendo il tempo
dell’assenza di Gesù, fidandosi solo della parola ascoltata.
Io parlo con te
Merita
una parola anche il finale e ci può essere utile per comprendere il tempo che
stiamo vivendo. Sono giorni nei quali dobbiamo imparare a camminare al buio: a
camminare senza vedere con chiarezza, con immediatezza, dove si va, il senso di
quello che ci sta accadendo, che cosa bisogna fare; non lo sappiamo,
brancoliamo, camminiamo al buio, ma proprio perché non vediamo tutto chiaro,
possiamo ascoltare. Sostenuti e sorretti da una parola arriveremo all'incontro
col Signore solo perché prima lo abbiamo saputo ascoltare, mentre camminavamo
al buio. Infatti, quando il cieco giunge al termine del suo cammino, il Signore
gli va incontro e gli dice: “Credi tu nel Figlio dell’uomo?” Il cieco risponde:
“E chi è Signore perché io creda in lui?”. “Sono io che parlo con te”. Se
impariamo a fidarci, a “rimanere nella parola” (come ha detto Gesù domenica
scorsa), se camminiamo anche al buio guidati dalla parola, se pazientemente
abbiamo imparato a sostare a lungo nella parola, ruminandola – come dicono i
monaci –, interiorizzandola, ecco allora poi arriveremo a scoprire il suo
volto. “Perché io parlo con te, parlo sempre con te; la mia parola ti è vicina;
potranno esserci momenti oscuri, ci saranno certamente giorni nei quali dovrai
camminare al buio, ma io non smetterò di parlare con te: io sono colui che
parla con te”. Parlaci signore! Rendici capaci di ascolto fiducioso della tua
parola; questi giorni nei quali ci manca tanto l’eucaristia, cioè la presenza
del Signore, noi camminiamo al buio sorretti dalla tua parola, e tu, Signore,
non smettere mai di rivolgerla a noi.
don Antonio Torresin