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19 marzo 2020

Se solo vedessimo!

Che strana quaresima. Tosta, dura. Con molte chiese chiuse. E la gente divorata dalla paura.
Paura di cosa? Di essere contagiati? Sì, certo. Ma, soprattutto, paura di morire.
Perché nessuno più ci parla della morte. Nessuno ci prepara a morire. Per un attimo ci siamo creduti immortali. Come se la scienza o la politica o l’economia avesse una soluzione per tutto. Teneri.
Ci lasciamo prendere dalla paura. Il peggiore dei virus.
Imparassimo a vedere. Imparassimo a capire quanta grazia c’è in questo spavento!
Imparassimo a fare come il profeta Samuele quando deve scegliere il nuovo re e che, a nome di Dio, rifiuta i sani e muscolosi figli di Iesse perché Dio vede il cuore e non l’apparenza e il cuore dell’adolescente Davide, agli occhi di Dio, è uno spettacolo!Imparassimo… Il rischio, invece, è quello di sprofondare nella notte.
Non quella che si alterna al giorno, che può essere dolce e intensa. Ma quella dello spirito, dell’anima, dell’inconscio. Uno stato in cui la tenebra contraddistingue le nostre scelte, il nostro percorso.
Siamo assetati e Cristo è l’acqua. Siamo ciechi e Cristo è la luce.
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Arcabas, "Guarigione del cieco nato"


Sono nato cieco.

Percepisco il mondo attorno a me, ma non lo vedo, lo sento. Spesso vi inciampo, nonostante la mia capacità di muovermi tra ostacoli invisibili e infidi.
Chiedo aiuto, ma non sempre è quello giusto e in questo buio totale sono solo, debole, minacciato. Credo, però, che potrò vedere, lo credo davvero, come posso non crederlo? È la speranza che mi tiene in vita. Per questo chiedo.
E ora vedo! Quale meraviglia! Resto lì con la bocca aperta, spalancata e muta per lo stupore.
Ho sentito le tue mani, Signore, prima delle parole. Mani calde, sicure, mani che amano. Le mie mani erano congiunte, in una preghiera di speranza, le hai prese nelle tue. Ti sei fermato, mi hai sentito, hai colto il mio grido. Era dolore, smarrimento, lo hai capito. E mi hai dato un senso, mi hai dato il valore che non sentivo.
Ancor prima di vedere, di rendermi conto di vedere, mi sono sentito illuminato. La luce a volte la senti, ti investe come un abbraccio. Così mi sono fermato, impietrito, quasi senza respirare. Ho pensato di essere morto.
Qualcuno forse lo ha sempre pensato, ho sentito la pelle del mio volto raffreddarsi, mi dicevano “Sei grigio? Che ti succede?”. Era fango. Ho avuto paura, ma ho avuto fede. E lavati gli occhi ho visto. Ora sono sicuro di vivere. Sento il sangue che scorre, sento il calore che dalle tue mani si è irradiato in tutto il corpo. Sono rinato, questa volta sono nato tutto. E rinascere è stato come sprofondare in un mondo di colori.

Ho due occhi nuovi, grandi, vivi.
Non riesco più a chiuderli, sono illuminato,
ogni cosa è illuminata
e tutto quello che vedo è parte di me
e io mi sento parte di te, Signore.

Arcabas è stato definito il “pittore della fede felice”: lui stesso, intervistato sul suo modo di dipingere, ha risposto che tutto scaturisce dal suo essere uomo di fede. Dal credere al vedere: è la fede ad animare il suo sguardo e il talento a dare forma ai racconti. Una catechesi per immagini che sollecita non solo la parte cognitiva, ma anche quella sensibile dell’osservatore, coinvolto in un’esperienza di spiritualità sinestetica.
Il quadro è un’illustrazione che descrive il fatto con tratti semplici e incisivi, ma anche un discorso simbolico affidato ai personaggi e soprattutto ai colori, in un continuo contrasto di toni vividi e “vivi” e toni freddi e spenti. Lo sfondo rosso, quella forma sul capo del cieco in cui si incontrano i colori, la linea delle mani di Gesù che incorniciano le mani giunte del cieco e conducono ai suoi occhi, luogo fisico e simbolico del racconto, delineano lo spazio sacro in cui è avvenuto il miracolo. E cos’è il miracolo se non l’irrompere dello straordinario nella dimensione quotidiana, la trasfigurazione della ordinarietà, la sua nuova configurazione?
Tutto converge sugli occhi del cieco, due nuovi occhi, bianchi, vividi, spalancati, come un innesto, una trasformazione, una trasfigurazione. Le dita di Gesù toccano gli occhi e infondono nelle orbite la vista, una vista che è per il cieco nuova vita, un battesimo, un modo nuovo di stare nel mondo e con gli altri. Il suo stupore e quella bocca aperta, non appena troveranno le parole in cui riversare la gioia, si trasformeranno in gratitudine e condivisione.
Ogni nascita e le mille rinascite dell'Umanità avvengono in un fascio di luce, sono doni di luce.

Testo tratto dal sussidio per animatori pubblicato sul sito della Diocesi di Piacenza-Bobbio

Una domanda cieca: “Chi ha peccato?”

L'inizio del brano ci immette con immediatezza drammatica alle domande di questi giorni: “Chi ha peccato? Di chi è la colpa?”. La domanda i discepoli se la fanno di fronte ad uno sconosciuto fermo al bordo della strada, ma per noi la domanda è più drammatica, perché ce la facciamo a riguardo di persone vicine, di amici, di fratelli colpiti dal male. “Di chi è la colpa?” Chissà perché questa domanda sembra quasi inevitabile. Non è la domanda giusta, di per sé, e infatti Gesù la scarta, invita i discepoli a guardare altrove. Però è una domanda che si impone, sembra quasi inevitabile: “Di chi è la colpa?” Perché questa domanda insorge dentro di noi? Io credo che sia per il fatto che noi non sappiamo sostenere il male, reggere impotenti il dolore, le situazioni di malattia. Tutto questo ci fa così male che non le reggiamo e dobbiamo in qualche modo e scaricarle. Per questo cerchiamo un colpevole; “se c'è un colpevole io non centro, io sono in salvo, non mi tocca!” Ecco che si cerca (e si trova) ogni volta il colpevole di turno: l'untore, piuttosto che il complotto internazionale, la stupidità della popolazione che non si è difesa. Il colpevole mette ciascuno al riparo – o almeno crediamo – senza che ci si debba assumere alcuna responsabilità. E invece non è così, non è così! Noi siamo tutti responsabili per tutto e di tutti! La ricerca del colpevole – “chi ha peccato?” – è una “domanda cieca”, non porta da nessuna parte, ma soprattutto è un modo di non lasciarsi toccare dalle situazioni. Invece l'unico modo di affrontare il male che ci attornia, di attraversare il buio, le situazioni oscure, è di entrare dentro di esse, di lasciarsi toccare da esse, dovessero anche ferirci.

Le opere della luce.
E infatti Gesù risponde alla domanda dei discepoli spostando altrove la ricerca. Dobbiamo cercare non la colpa sua o dei suoi genitori, ma dobbiamo compiere le opere della luce! Anche nei momenti più oscuri c'è ancora un po' di luce, c’è del bene che possiamo fare e che accade sotto i nostri occhi, se lo sappiamo vedere. Dobbiamo restare tenacemente attaccati a tutta la luce che c’è, finché è giorno! Tenere accesa la luce che c’è, orientarci con essa senza lasciarci accecare dall’oscurità. Perché le tenebre sono accecanti e insieme seducenti. Noi subiamo spesso una sorta di fascinazione per l’oscurità, vediamo subito le cose brutte, le cose negative, gli errori, il male, i colpevoli. Lo vediamo subito, e non vediamo il bene. Gesù sposta il nostro sguardo verso le opere della luce, la possibilità di bene che è ancora possibile.

Il tocco della grazia e la promessa che mettono in cammino.

Che cosa fa allora Gesù? La sua opera avviene attraverso un gesto e una parola. Per prima cosa Gesù tocca il cieco. Compie gesti che sono evidentemente simbolici: prende della
Duccio da Boninsegna – 1308
terra, sputa nel fango, lo mette sugli occhi dell’uomo cieco. Sono gesti che richiamano la creazione dell’uomo, che indicano un contatto e una comunicazione dello spirito che fa vivere. Come è nella creazione di Dio che alita il suo respiro sull’uomo fatto di terra perché prenda vita. Noi oggi siamo terrorizzati, abbiamo paura che il fiato, il respiro di qualcuno, ci infetti e ci porti la morte. Ma è ancor più vero il contrario: noi riceviamo la vita se qualcuno ci respira addosso, ci alita, ci ossigena con il suo spirito. Non possiamo vivere sempre con le mascherine, cercando di immunizzarci da ogni contatto. Noi abbiamo bisogno che qualcuno ci tocchi, che ci raggiunga con il suo alito perché quel soffio è vita, non porta la morte, porta la forza della vita: ogni volta che qualcuno che ci vuole bene ci tocca, ci bacia, ci accarezza, noi viviamo. Senza siamo morti. È un atto creativo, perché l'amore è capace di ricreare, ha una potenza creatrice straordinaria.

La seconda azione che Gesù compie è il dono di una parola che è una promessa e un ordine: “va' a lavarti”. Inizia qui il cammino di una creatura nuova, di un uomo nuovo. Il cieco inizia una vita nuova perché impara a camminare fidandosi della parola, della promessa di Gesù. Questo dice molto dell’esperienza della fede. Credere è essere toccati da una grazia, ricevere un tocco di grazia, e mettersi in cammino. Basta poco, un tocco appena di grazia che ti fa vivere. Nel momento in cui la ricevi non vedi il Signore, non lo sai neppure di essere stato ricreato, ma lo senti, lo intuisci perché di nuovo impari a fidarti. La promessa indica una rigenerazione, un futuro possibile: “va’, cammina, lavati e purificati, rinasci e alzati, e vedrai in modo nuovo”. Così è nell’esperienza della fede di tutti: quando il Signore c’è e ci tocca, passa a fianco della nostra vita, noi non lo vediamo. Percepiamo in maniera intuitiva una presenza di vita, ma non lo vediamo; solo dopo aver imparato a camminare e sorretti dalla sua promessa, giungiamo a riconoscerlo. Ma prima c’è un lungo e arduo percorso durante il quale, fidandosi di questa parola, impariamo a reggere il tempo della sua assenza. Perché in tutto il brano Gesù è un grande assente: si presenta all’inizio e alla fine, ma nel corso drammatico di tutta la parte centrale del cammino, quando il cieco deve reggere la prova, quest'uomo è da solo, e Gesù è assente. Eppure, quell’assenza non è priva di forza, è un'assenza che ha lasciato una traccia, la sua parola, l'esperienza di quell’incontro che lui non può dimenticare e che lo tiene vivo; fa si che possa reggere anche le provocazioni, le interrogazioni di tutti quelli che lo mettono in dubbio; lui non lo ha visto, eppure qualcosa è accaduto di straordinario! Credere significa anche questo: imparare a camminare reggendo il tempo dell’assenza di Gesù, fidandosi solo della parola ascoltata.

Io parlo con te
Merita una parola anche il finale e ci può essere utile per comprendere il tempo che stiamo vivendo. Sono giorni nei quali dobbiamo imparare a camminare al buio: a camminare senza vedere con chiarezza, con immediatezza, dove si va, il senso di quello che ci sta accadendo, che cosa bisogna fare; non lo sappiamo, brancoliamo, camminiamo al buio, ma proprio perché non vediamo tutto chiaro, possiamo ascoltare. Sostenuti e sorretti da una parola arriveremo all'incontro col Signore solo perché prima lo abbiamo saputo ascoltare, mentre camminavamo al buio. Infatti, quando il cieco giunge al termine del suo cammino, il Signore gli va incontro e gli dice: “Credi tu nel Figlio dell’uomo?” Il cieco risponde: “E chi è Signore perché io creda in lui?”. “Sono io che parlo con te”. Se impariamo a fidarci, a “rimanere nella parola” (come ha detto Gesù domenica scorsa), se camminiamo anche al buio guidati dalla parola, se pazientemente abbiamo imparato a sostare a lungo nella parola, ruminandola – come dicono i monaci –, interiorizzandola, ecco allora poi arriveremo a scoprire il suo volto. “Perché io parlo con te, parlo sempre con te; la mia parola ti è vicina; potranno esserci momenti oscuri, ci saranno certamente giorni nei quali dovrai camminare al buio, ma io non smetterò di parlare con te: io sono colui che parla con te”. Parlaci signore! Rendici capaci di ascolto fiducioso della tua parola; questi giorni nei quali ci manca tanto l’eucaristia, cioè la presenza del Signore, noi camminiamo al buio sorretti dalla tua parola, e tu, Signore, non smettere mai di rivolgerla a noi.

don Antonio Torresin