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27 marzo 2020

“Io sono stufo di leggere e anche di pregare”



Questa espressione è un passaggio di un più ampio dialogo sul gruppo di WhatsApp dei miei compagni di ordinazione, era il 1988. Forzatamente (o provvidenzialmente?) “svestiti” dai ruoli di ciascuno, ritroviamo anche così qualche spazio di fraterno e libero scambio, confronto e sostegno ma anche la possibilità di confessare il nostro umano smarrimento e i turbamenti nella fede. I benpensanti potrebbero stracciarsi le vesti al pensiero che un prete possa aver detto una cosa del genere. Anche a me ha colpito ma perché ha espresso ciò che anch’io provo dopo giorni e settimane come quelle che viviamo. Certo è cosa da elaborare ma fotografa bene lo stordimento che segue letture e ascolti in cerca di risposte o di spunti rassicuranti che non arrivano, e dopo invocazioni intense ma “inascoltate”.
Forse anche le sorelle di Marta e Maria hanno vissuto qualcosa del genere nel tempo della malattia e poi della morte di Lazzaro. Anche le loro attese sono rimaste frustrate e le preghiere inascoltate… soprattutto quell’invito rivolto al grande amico Gesù. Hanno sperimentato anche loro qualcosa del rompicapo del “distanziamento sociale” … per giungere a scoprire che erano attorniate da molti vicini “distanti” mentre erano apparentemente “distanti” da chi è risultato davvero vicino. Hanno provato a darsi da fare per alleviare le sofferenze del fratello e hanno pregato per lui inutilmente. Hanno vissuto l’angosciosa impotenza di fronte alla morte e il pianto alla tomba.
Il racconto della risurrezione di Lazzaro può risuonare alle orecchie del nostro cuore quest’anno in modo tutto particolare. Possiamo a pieno titolo entrarci anche noi col cuore carico di tutto il dolore di questi giorni.
È bene “stare” in compagnia della Parola per poi scoprire che è lei a farti compagnia. Una compagnia discreta e paziente, delicata e fedele, capace di ascoltarci prima di parlare, disposta a farci da specchio perché impariamo a riconoscere ciò che si muove dentro di noi, non anestetizzante e desiderosa di corrispondere alle nostre attese ad ogni costo ma pronta a pagare ogni costo per il nostro vero bene.
Così come siamo, riconoscendo addirittura che siamo “stufi di leggere e anche di pregare”, proviamo a lasciarci raggiungere dalla compagnia del Vangelo della risurrezione di Lazzaro. E come il fermo immagine di un film sostiamo sulle scene, sulle singole parole e sui gesti, sui sentimenti che esprimono. È un esercizio prezioso da fare senza fretta e senza attese. Nessuno può farlo per te. Dopo aver letto qualche spunto, anche da questi fogli, prova anche tu. Un po’ alla volta la preoccupazione di trovare risposte e di capire, o il tumulto di sentimenti ingombranti e paralizzanti, farà spazio al silenzio disarmato ma non sconfitto di chi scopre che alla fine rimarranno «soltanto loro due: la misera e la misericordia» (come s. Agostino commentava nel commento all’episodio del perdono alla peccatrice): la misera condizione di ciascun uomo sulla terra e Gesù-misericordia-di-Dio.
Forse questi giorni portano con sé la grazia di uno sguardo nuovo su Dio, sul mondo, sugli altri, su noi stessi: che è lo stesso sguardo che Gesù di Nazareth ci ha rivelato vivendo in mezzo a noi. Ci è chiesta la disponibilità anzitutto di gustarne la bellezza e la verità e poi di imparare a farlo nostro. E se la strada fosse quella delle “lacrime”? Vi lascio ad alcuni spunti di papa Francesco su questa intuizione.
Buona domenica a tutti.
don Alfredo

La strada delle lacrime secondo papa Francesco


Papa Francesco parlando ai giovani dell’Università Santo Tomas a Manila affermava: «Al mondo di oggi manca il pianto! [...] Certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime. Invito ciascuno di voi a domandarsi: io ho imparato a piangere? [...] Se voi non imparate a piangere non siete buoni cristiani. E questa è una sfida […] Siate coraggiosi, non abbiate paura di piangere!» (Manila, 18 gennaio 2015).

Questo testo, non a caso, è ripreso e riproposto ai giovani nella recente esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit:
76. Forse «quelli che facciamo una vita più o meno senza necessità non sappiamo piangere. Certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime. Invito ciascuno di voi a domandarsi: io ho imparato a piangere? Quando vedo un bambino affamato, un bambino drogato per la strada, un bambino senza casa, un bambino abbandonato, un bambino abusato, un bambino usato come schiavo per la società? O il mio è il pianto capriccioso di chi piange perché vorrebbe avere qualcosa di più?» (cfr. a Manila). Cerca di imparare a piangere per i giovani che stanno peggio di te. La misericordia e la compassione si esprimono anche piangendo. Se non ti viene, chiedi al Signore di concederti di versare lacrime per la sofferenza degli altri. Quando saprai piangere, soltanto allora sarai capace di fare qualcosa per gli altri con il cuore.

Scrive mons. Semeraro, vescovo di Albano: «Le lacrime di cui parla Papa Francesco non ci rimandano a un cristianesimo piagnone, ma a un cristianesimo desideroso di incontrare persone con le quali tuffarsi nell’acqua della misericordia di Dio, l’unica in grado di sciogliere la durezza del cuore umano e inondarlo con la gioia del Vangelo»
(Presentazione al volume di Luca Saraceno La saggezza delle lacrime e il significato del pianto, EDB, Bologna, 2015, pagina 21).

«Le lacrime di Gesù per la morte di Lazzaro», spiega Bergoglio, «hanno sconcertato tanti teologi nel corso dei secoli, ma soprattutto hanno lavato tante anime, hanno lenito tante ferite. Anche Gesù ha sperimentato nella sua persona la paura della sofferenza e della morte, la delusione e lo sconforto per il tradimento di Giuda e di Pietro, il dolore per la morte dell’amico Lazzaro». Ma se Gesù piange, spiega il Papa, «anch’io posso piangere sapendo di essere compreso. Il pianto di Gesù è l’antidoto contro l’indifferenza per la sofferenza dei miei fratelli. Quel pianto insegna a fare mio il dolore degli altri, a rendermi partecipe del disagio e della sofferenza di quanti vivono nelle situazioni più dolorose. Mi scuote per farmi percepire la tristezza e la disperazione di quanti si sono visti perfino sottrarre il corpo dei loro cari, e non hanno più neppure un luogo dove poter trovare consolazione. Il pianto di Gesù non può rimanere senza risposta da parte di chi crede in Lui. Come Lui consola, così noi siamo chiamati a consolare». (da Famiglia Cristiana maggio 2016, in riferimento alla Veglia di preghiera per asciugare le lacrime)

Commenti al Vangelo della V Domenica di Quaresima

Le arance di Lazzaro e la bara-su-misura
di don Marco Pozza

In quella casa Cristo amava mostrarsi veramente uomo. Era come se, per il tempo che vi sostava, lasciasse la sua divinità fuori dalla porta, quasi fosse un qualcosa d’ingombrante in quello spazio amico. Quella casa è il numero civico di tre fratelli: Marta, Maria, Lazzaro. Gente alla-buona, che non ha mai chiesto il minimo favore all’Amico. Forse è proprio per questo che vi fa sempre ritorno. Da quanto si conoscessero, il Vangelo non esprime parola. Il tutto che dice vale molto di più: «Gesù amava Marta, sua sorella e Lazzaro». La qualità di modo a scapito della quantità di tempo: sarà sempre così dietro a Cristo. Questo è tutto.
Un giorno capitò un fatto strano. Cristo era in trasferta in Transgiordania e, improvvisamente, gli viene mandata un’ambasceria. Il contenuto è da vertigini: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». L’oggetto del discutere è Lazzaro, e dunque non uno qualsiasi: l’amico-personale di Cristo. Ciò che t’immagini è che Cristo dia un’accelerata, firmi un improvviso cambio di percorso e s’affretti prima possibile a Betania. Niente di tutto ciò, esattamente l’opposto: «Quando sentì che era malato rimase due giorni nei luoghi in cui si trovava». Siccome Lazzaro ha bisogno, l’Amico pare fregarsene. E due giorni, per chi ha appuntamento con la morte, sono un lasso di tempo enorme, decisivo, definitivo. Letale.
Succede sempre così, con Cristo: quando serve, fatalità, è sempre lontano. Dista almeno il tempo che serve per lasciare che la morte faccia il suo corso.

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Le lacrime di chi ama, una lente sul mondo
di padre Ermes Ronchi

Il racconto della risurrezione di Lazzaro è la pagina dove Gesù appare più umano. Lo vediamo fremere, piangere, commuoversi, gridare. Quando ama, l’uomo compie gesti divini; quando ama, Dio lo fa con gesti molto umani. Una forza scorre sotto tutte le parole del racconto: non è la vita che vince la morte. La morte, nella realtà, vince e ingoia la vita. Invece ciò che vince la morte è l’amore. Tutti i presenti quel giorno a Betania se ne rendono conto: guardate come lo amava, dicono ammirati. E le sorelle coniano un nome bellissimo per Lazzaro: Colui–che–tu–ami.

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Commento
di don Pablo M. Edo, dell’Opus Dei

La quinta domenica di Quaresima ci presenta il racconto della risurrezione di Lazzaro, il settimo segno o miracolo narrato da san Giovanni, l’ultimo e il più portentoso, quello che rivela Gesù Signore della vita e della morte.
San Giovanni sottolinea che Marta, Maria e Lazzaro erano amici di Gesù. Frutto di questa reciproca familiarità, le sorelle inviano un messaggio al Maestro per informarlo che il fratello si è ammalato. L’evangelista aggiunge che “Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro” (v. 5). E più avanti, con il versetto più breve della Bibbia, afferma che Gesù si commosse e “scoppiò in pianto” (v. 35). Questo affetto del Signore ha sempre destato lo stupore dei santi e il loro desiderio di ricambiare. San Josemaría Escrivá de Balaguer si esprimeva così: “Gesù è tuo amico. L’Amico. Con un cuore di carne, come il tuo. Con gli occhi, dallo sguardo amabilissimo, che piansero per Lazzaro... E così come a Lazzaro, vuol bene a te”.

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