02 marzo 2019

Campus della Pace 2019

Carissimi, la cronaca quotidiana assomiglia spesso ad una grande tritatutto che ci porta a dimenticare persino le cose più belle e gli incontri più significativi. Ma non così noi, discepoli di Gesù, vogliamo stare nella storia! Noi vogliamo, come suggeriva papa Francesco di ritorno dallo “storico” viaggio ad Abu Dhabi, scrivere ogni giorno la storia del mondo con la nostra vita. E per fare questo vogliamo ri-cordare (custodire nel cuore) le parole, i gesti, gli incontri più belli che possono ancora nutrirci.

Con questo intento riportiamo il testo della breve meditazione di Mons. Delpini alla preghiera interreligiosa del Campus e le riflessioni di don Giovanni a seguito di questa straordinaria esperienza perché diventi ricchezza per tutti.


Le consegne di Mons. Delpini
al Campus della Pace


L’umanità è ferita. Questa cosa meravigliosa che è l’uomo, la donna, l’umanità è ferita nelle sue manifestazioni più belle, più alte, più necessarie.
L’umanità è ferita nel suo bisogno, la fame, la sete,  il bisogno delle cose può diventare avidità. L’avidità è la ferita del bisogno perché l’avidità induce le persone a prendere ad accaparrare, ad accumulare, a ritenere che quello che l’altro prende è sottratto a me, perciò l’altro diventa un nemico. L’avidità è una ferita che induce quindi alla guerra, al contrastare chi vuole prendere quello di cui io ho bisogno. L’avidità è la ferita che fa soffrire l’umanità.
E’ Gesù in questa pagina di vangelo (la moltiplicazione dei pani) dice che il bisogno invece che generare avidità deve generare condivisione. Ci insegna dunque che è necessario curare questa ferita.

E io vorrei incoraggiare tutti a creare laboratori dove si cura la ferita, dove si considera il bisogno e si vigila perché il bisogno non generi avidità ma invece condivisione.
Io incoraggio, invito, chiedo che il Campus per esempio che qui si organizza sia un laboratorio per curare la ferita che può generare avidità.
Io prego, io chiedo, io invito che le religioni siano dei laboratori dove si cura questa ferita.
Io prego, io chiedo, io invito che questa città, che questo quartiere sia un laboratorio che cura questa ferita.

Si cerca di curare questa ferita della dignità facendo si che il bisogno convinca alla condivisione.
L’umanità è ferita nelle sue caratteristiche più nobili per-ciò è ferita la parola. La parola può essere una parola che respinge, una parola che separa, una parola che semina confusione, una parola che crea banalità, una parola che accusa, che ferisce, che offende.
La parola è ferita.
Io invito a cercare la cura per la parola ferita. E  la cura per la parola ferita è il silenzio, imparare a fare silenzio.
Le diverse religioni quando parlano sembrano dire cose contrastanti, chiamare Dio con nomi diversi. Quando fanno silenzio pregano l’unico Dio. Il silenzio guarisce la parola ferita e fa nascere parole di pace.
Io invito, chiedo, suggerisco che ci siano laboratori dove si pratica il silenzio per curare la parola ferita e farla diventare parola buona. Così il Campus, la città, le religioni e tutte le nostre associazioni di bene possono curare la parola ferita praticando questo percorso affascinante che è il silenzio di cui abbiamo bisogno perché Dio si riveli e semini parola buone, parole di pace.

L’umanità è ferita in quello che ha di più nobile, di più alto. L’umanità è ferita nelle relazioni. Le relazioni si ammalano di paura, di sospetto, di pregiudizio, di contrasti. Le persone si incontrano e le relazioni malate generano conflitti, contrapposizioni.

Bisogna creare dei laboratori in cui si curino le malattie della relazione interpersonale. E io perciò invito tutti, noi qui stasera, tutte le religioni, tutte le associazioni, tutta la città a diventare un laboratorio in cui si curi la ferita delle relazioni e la cura è la mitezza e il perdono.
Così potremo costruire relazioni che invece che essere segnate dalla paura, dal pregiudizio, dal sospetto, che siano caratterizzate dall'attenzione, dal rispetto, dalla stima vicendevole.
Il Signore Gesù ci ha comandato di amarci come lui ci ama per curare le relazioni ferite.

Perciò facendomi voce della Chiesa cattolica e cercando l’alleanza con tutte le religioni, con tutte le presenze e le istituzioni della città, io invito a fare di questa città, di questo quartiere e di questa iniziativa del Campus un laboratorio: per curare l’avidità, perché ne venga condivisione;
per curare la parola che ferisce, perché ne venga quel silenzio da cui viene la parola che guarisce;
per curare le relazioni malate con quell'esercizio della carità che genera relazioni di pace. 


A così poca distanza dai giorni del Campus della Pace non è facile tracciare un bilancio.

Mi limito quindi ad alcune non esaustive considerazioni sparse e senza pretesa di organicità, quasi come un flusso emotivo che desidero condividere con chi avrà la pazienza di leggere queste righe.

1 Esperienza straordinaria e bisogno di ordinarietà.
Condivido una domanda che mi ha fatto compagnia nei giorni intensi di preparazione all'evento, densi di mail, telefonate, incontri e pianificazione nei dettagli che allora poteva apparire come dettata dalla stanchezza e dalla pressione e che invece consideravo e tuttora reputo bisognosa di un vero e proprio discernimento spirituale: a Gratosoglio c'è ancora bisogno di un evento straordinario oppure tutti gli ingredienti concentrati nell'arco di una settimana possono diventare prassi ordinaria dei nostri gruppi di pastorale giovanile? Insomma, c'è ancora bisogno del Campus della Pace? Testimonianze eccellenti, momenti di preghiera con le altre religioni, lavoro condiviso con le scuole, accoglienza di fratelli di città lontane, collaborazione con la comunità islamica, riflessione e azione di taglio sociale e politico per sognare e agire una riqualificazione della nostra periferia non senza il coinvolgimento del centro...tutto questo deve essere inserito nel calendario dell'anno e senza eccessivo clamore; deve essere il nostro ordinario modo di procedere per non confinarci nello spazio angusto dei nostri recinti, per non incontrare solo quelli che appartengono ai nostri percorsi ma un'occasione grande di semina in tanti cuori, un modo di essere sale e luce della terra, di non smarrire il senso del Vangelo nella città dell'uomo.
Colgo come alta questa ambizione eppure non irraggiungibile e se avremo ancora bisogno dell'Evento, vorrei che tutti insieme lo avvertissimo come assolutamente transitorio, come una tappa obbligata per rendere straordinari tutti i nostri percorsi ordinari.

2 Non senza l'apporto della comunità.
Mi fa sperare nella realizzazione di quanto scrivevo poco sopra il fatto che mai come quest'anno siano stati tanti gli attori che volontariamente si sono messi in gioco per realizzare questa avventura: giovani e meno giovani, famiglie intere in una molteplicità di servizi che hanno reso curata e precisa ogni iniziativa. Il mio grazie va a tutti voi per la serietà con cui avete raccolto la sfida e vi siete impegnati con orgoglio a mostrare la profezia nascosta nella nostra periferia.
Spesso, per presentare il tema, ho richiamato il fatto che a Gratosoglio c'è un'oasi di futuro che va riscoperta, come una ricchezza che ci appartiene e che, liberata, può arricchire il tessuto civile della nostra città: è l'umanità che caratterizza le nostre parrocchie e che, in linea con la nostra tradizione, ci permette di annunciare il Vangelo in questo scorcio di millennio; è la voglia di non chiudersi in casa e di abbattere i muri del pregiudizio. Non è sempre facile abitare questa periferia: in quei giorni forse abbiamo ritrovato la possibilità di essere un'oasi accogliente per molti e non è poco nel deserto in cui spesso abbiamo la percezione di camminare.  E dall'essere per l'altro può rinascere una nuova consapevolezza di noi stessi e possiamo rintracciare una vocazione più profonda dell'essere Chiesa fra le case. 

3 "Ma a te cosa ha colpito di quei giorni?"
Non sono pochi quelli che mi hanno rivolto questa domanda. Potrei rispondere che mi ha colpito tutto, che mi hanno stimolato gli interventi di alcuni ospiti, mi ha emozionato vedere riuniti con il Sindaco e  l'Arcivescovo gli esponenti delle altre comunità religiose, i numeri insperati, il silenzio attento dei giovani, l'entusiasmo crescente delle scuole…  ma io preferisco i dettagli.
Ciò che mi ha colpito sono le parole di un ragazzo del Liceo Berchet che per la prima volta metteva piede in in quartiere e che ha detto che "da qui si vede il cielo!", semplice considerazione che valorizza gli spazi aperti e il verde del nostro Parco Agricolo Sud ma in cui ho voluto cogliere un'allusione poetica! Mi ha colpito l'improbabile gioco di squadra delle mamme islamiche con le nostre mamme e il loro sorriso mentre erano sedute a tavola con l'Arcivescovo senza dovere per una sera sfaccendare nelle loro case; gli incroci delle vite dei testimoni di martedì sera e la mia gioia di poter presentare, prima dell'incontro, grandi uomini ad altrettanti grandi uomini; mi ha colpito il silenzio attento di oltre 400 ragazzi delle medie mentre ascoltavano le parole impregnate di vita di un uomo controcorrente come Jovan Divjak; mi ha colpito la commozione degli adolescenti mentre si lasciavano ripetere dai clochard venuti come testimoni giovedì mattina che in nessun momento un uomo perde la sua dignità.                                                               
don Giovanni